MARZO '09

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"...l'inesprimibile disgusto per qualsiasi metafisica e la splendida familiarità con il mondo delle cose reali - tutto questo mi diceva: sei ancora lucido, non temere il tuo tempo, non fare il furbo."
Osip Mandel'stam, Viaggio in Armenia


Oggi abbiamo fatto la spesa al centro commerciale, gli ideali un po’ sbiaditi da una notte d'insonnia e i pensieri come rare balene d'un oceano lontano che batte le onde sotto un temporale.
La realtà è che ha fatto caldo per la stagione e si poteva provare davvero ad andare al mare.
Vuoi fare qui la spesa, daccordo - ma mi stordisce questo posto colmo di persone e di cose. Tu, mia Euripiga, invece sei a tuo agio, sai guardare ogni prodotto con lucidità, come una ferita da fasciare, soppesi il prezzo e il valore con intelligenza, ma io no, resto stravinto dal ridondante troppo, e fingendo d'aiutarti ti seguo per non perdermi.
Il centro commerciale è un organismo di cui quasi mi sento cibo, è luogo troppo pieno per contenere qualcosa; e mi spaventa il modo di parlare della sua radio accesa senza fine (ma cosa dovrebbe dire? Cos’altro potrebbe contenere?).
È sabato, e trovarmi in un grande centro commerciale con una nostalgia di paesaggio un po’ mi deprime, fino a farmi desiderare di ricordare il paesaggio di un’ora migliore.
Penso allora al paesaggio mancante, l'altro paesaggio, quello che abbiamo visto e vissuto, tra i marigot, le capanne, le donne e gli uomini africani.
Adesso mi manca il paesaggio.





Intanto dall’alto, ovunque risuona questa odiosa radio perpetua che penetra senza poter essere ascoltata; nell’atrio porte infallibili ci hanno accolto, apparentemente inesistenti. Passarci attraverso non è un passaggio cosciente, è un controllo, la prova ontologica che i sensori ci sentono e continueranno a sentirci fino a che avremo vita. Finchè si moltiplicherà il sodalizio tra la vita umana e il mercato di cose ed esseri.

Siamo dentro una nave baleniera sprofondata in terra, che porta mercanzie e spezie d’oriente e d’occidente, del nord economico e del sud produttivo del mondo, piena di commessi col mal di mare per la crisi e con una marinaresca organizzazione, rassegnata. Pieno di videocamere, sembra uno studio televisivo a cui s'arriva diretti da casa via auto perchè da casa ci spiegano (via tv) come è fatta la sua semplice geografia e cosa possiamo trovarci dentro di buono, in offerta per noi.
Fanoni al setaccio, le casse sono piene di gente.
Arriviamo ai laser che certificano i prezzi con un suono di campanello, refuso elettronico di altro suono.

Una sola volta abbiamo visto due ladri scavalcare ubriachi le casse e svignarsela (ti ricordi?) ridendo.

Tra queste corsie mi sento parte della specie e della latitudine, di questo modo di esser noi, l’attualissima versione italiana degli uomini, non degli eroi, non dei primi, non degli ultimi.
Tra i "promopupazzi" ideati bene dai pubblicitari, in questi capannoni mascherati perfettamente dagli architetti e in quest'infinità di accessori che si possono comprare, alberga l’antico sogno di avere tutto il necessario pronto sotto mano, di rendere naturale una magia.
Quanti uomini nel mondo non hanno  e sognano tutto questo! Il gran mercato è noto ovunque e anche il villaggio più sperduto vi ambisce.


Mi domando dove l’abbandono o l’amore di Dio sia più evidente: se nel disastro prefigurato da quest’abbondanza di case e strade, in questi scaffali strapieni d'appropriazioni debite o se piuttosto non sia nei poveri paesaggi in via di distruzione che abbiamo visto in Tchad, saccheggiati dai contadini perché di li si possa strappare di che vivere.
Conseguentemente o inconseguentemente si sta facendo di tutto affinchè la parità tra gli uomini sia solo l’uguale possibilità di distruggere il paesaggio per lo sviluppo e per il benessere.
Cerchiamo allora un tipo di sviluppo che non sia lo sviluppo finora considerato. Un altro benessere che non consideri come una pacifica necessità questa distruzione, quest’offerta esagerata di merci e prodotti.

Mi chiedo però perchè proprio in questo luogo il ricordo dei villaggi nella savana sia più forte, perché mai la nostalgia mi s'impregni addosso lasciandomi così vuoto in un giorno senza alberi.
Come è possibile dopo un ritorno dall’Africa riabituarsi a questo?
Vedo i bambini che ritrovano tra le corsie il “già visto in tv” e le loro belle mamme che, così competenti nella scelta, sembrano contente di essere qui; i carrelli carichi sono spinti da persone cordialmente distaccate che sembrano sapere molto bene ciò che fanno, e io amo questi miei simili.
Eppure il paesaggio di questa terra veneta è stato distrutto in nome di uno sfrenato sviluppo di cui noi tutti siamo figli. Io cerco di non scordare niente di ciò che c’era, dei racconti, dei libri che narrano il paesaggio e invece scordo tutto quel che non sia il parcheggio, i prodotti, i commessi in tuta rossa, le luci, la radio.
Allora la salvezza sarà nel parcheggio, l'ultimo paesaggio di cielo su asfalto prima di ritornare nella scatola, in una delle tante.

Ma io ti accompagnerò per altri mercati in altre città, e ci sarà un diverso modo di smarrirsi; saremo come le mani delle scimmie ragno (le ricordi allo zoo, a Lisbona?), impegnate in una danza che fa loro dimenticare di appartenere ad un unico corpo, ma quel corpo intanto viaggia veloce tra i rami senza mai lasciarsi un attimo agitatamente cadere.
Amore mio, dove sarebbe la luna della speranza se non è già qui con noi, oggi, adesso?
Se Dio vorrà presto partiremo ancora per scoprire un'altra realtà di un lungo paese dell’america del sud, che dicono bellissimo.
(Per questo il nostro inverno si prolungherà, forse raddoppierà.)


Ignoro come sarà per noi la vita in quel continente, in quel paese, ma sento che siamo pronti ad affrontare questa nuova impresa di almeno due anni, allora cuciamoci addosso questo bel progetto: “Riscattando il patrimonio campesino” e scopriamo il tipo di aiuto che possiamo dare. Cosa siamo e saremo si definirà e prenderà ancor più luce strada facendo, ho fiducia nei nuovi incontri e nella nostra alleanza.
E vedrai che vedremo davvero i dorsi delle grandi balene, che tu m’indicherai, niente l’uomo può vedere di più divino in terra, di così distaccato da terra, di così grandioso e vivo. Seguiremo le scie delle code, le loro impronte, o semplicemente sapremo che nell’oceano infinito, là a largo, ci sono.
Spero sarà un tempo di paesaggio e d'incontri amore mio, e di sieste in cui dirò: sono stato questo, questo e questo;  senza sottintendere: non questo, non questo e non questo.
Tu sarai al mio fianco, accarezzerai qualche piccolo lama o un altro cucciolo a cui un giorno daremo il corso del futuro. Faremo un nido sul tetto d'una casa di cicogne e saremo pigri come leoni, senza rimpianti. E anche se ci guarderanno da vicino noi vivremo nascosti.

  Per adesso bisognerà sparare una palla di cannone ad occidente fino all'oceano ed affacciarsi piano piano al nuovo mondo, per dimenticare di aver comprato quasi per pietà queste povere piantine di basilico vendute senz’amore in un supermercato.
Pietà e compassione tanto ne proveremo ancora.

Ma posso io  parlare di pietà per il paesaggio?
Proprio con questi occhi che non hanno visto mai più lontano di quelli di un baco da seta?
Come fosse, il paesaggio, il filo prezioso nascosto in una profezia, la visione resta celata forse dall'eccessiva vicinanza degli occhi alle tessere del mosaico che il senso (oscuro) compone, e che io cerco di decifrare  cucendomi addosso di seta una fede.
E la torre di tua madre con i 4 angeli appesi per nome e a testa in giù nell'improbabile tentativo di restare così al passo con i tempi?
Perchè amore mio?









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"Sono per occhi che davvero vedono, tutte quelle immagini? E per orecchie che odono tutti quei magazzini di suoni? E per mani che afferrano,  quei congegni che le costringono a restare inerti? (...)
Nella gola dell'eone - ma, dopo tanti anni là dentro, adesso:
alterius spectare laborem.
E non invidio certo chi ne sa più di me dell'uomo e dei suoi incessabili deliri: invidio il botanico, l'entomologo, la cartolina illustrata, la scopa, la polvere dei libri, il telegrafo Morse, la fisarmonica..."

Guido Ceronetti, "Cara incertezza"








 



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