GIUGNO '08

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“Je vais partir non pas comme une espèce de misantrophe, ou comme un ascète désireux de reconquérir le vertus du bon sauvage, non pas parce que je suis déçu dans mon ambition, mais partir pour mûrir, puor vivre, pour vivre d’autres réalités, d’autre habitudes, partir puor vivre avec d’autres gens.”
Etienne Goyémidé, “Le silence de la forêt”



Qui finisce il viaggio geografico e cominciano le persone, i villaggi possono sembrare tutti uguali per chi non li conosce. Capanne di mattoni crudi o poco cotti e tetti di paglia che si devono rifare tutti gli anni. Nessun albero o animale come i nostri, anche i cani e gli asini sembrano diversi.
Io qui sono assorto in profondi pensieri; tra la manutenzione del gruppo elettrogeno e del frigorifero a petrolio, del fuoristrada e del bidone del gasolio (che va filtrato), dei nostri visti da rinnovare e dei viaggi da fare in questi 18 villaggi coperti dal progetto, ma soprattutto sul come dire di no alle gentili, continue richieste; non ho nemmeno il tempo di chiedere a qualcuno come si traduce in francese il detto: “Mi salta la mosca al naso”. Tuttavia tra gaffes e tentennamenti il mio francese elementare s’affina. Le mancanze nel francese non sembrano però preoccupare troppo gli n’gambay, in fondo il francese è per tutti noi una lingua straniera, per niente venerata e apprezzata nelle sue nuances.

Oggi saremo per almeno 9 ore attenti spettatori dell’assemblea generale annuale della cassa di credito e risparmio (CEC) del villaggio di Reb Reb. Durante queste assemblee siamo sempre sopra il palco davanti ad un pubblico, ma in realtà restiamo soli ed inconfondibili in qualsiasi momento della giornata; soli ma contornati, attorniati, vischiosamente coinvolti dal villaggio. Qui dove anche le onnipresenti mosche sembrano magre, regna talvolta uno strano senso di trasparenza tra le tante opacità fatte di sottintesi e di “non detti”.
Per esempio, le capre mangiate in comunità sono spesso uccise e scuoiate davanti agli occhi dei commensali, ciò da un senso di festa e di cibo sicuro in queste assemblee interminabili tra i manghi e le capanne, con centinaia di paysans che aderiscono più o meno convinti ai clubs di credito e risparmio (proprio io, proprio io partecipo a questo processo, io che non ho avuto un mio conto in banca fino a quest’anno. Io che faccio fatica a contare fino a 100. Ma loro mi vedono scrivere e penseranno senzaltro che stia verificando i conti con ingordigia da contabile).
Ora le donne ci portano il thè caldo e zuccherato come rosolio. E qualcuno si mette a ridere per una qualche battuta a me incomprensibile che rompe una tensione.
Enormi nuvole passano mentre alla carcassa di capra portano il machete.

La formazione al risparmio e credito, come quella alla fertilizzazione dei campi vuole portare dei vantaggi che gli stessi paesani riconoscono e vorrebbero avere.
Questo processo è già stato avviato in seno al progetto, questi paesani davanti a me seduti compieranno lentamente la loro impresa, in realtà la stanno già compiendo, ma non sono sempre chiari i singoli passaggi che portano le attività a buon fine.
Per fornire un aiuto materiale veramente utile è necessario che essi dimostrino una  certa autonomia, un progetto condiviso e che si sentano proprietari e responsabili delle proprie realizzazioni. Nel contesto noi dovremmo essere operatori che sanno scomparire dietro questo processo di autopromozione, e mai ne essere ne apparire come indispensabili dispensatori di beni o come insegnanti acculturatori. Ma animatori che scendano nel territorio e sappiano cogliere i bisogni e gli obiettivi espressi dalla gente. Questo metodo, lento e partecipativo, non è visto ancora da tutti favorevolmente, specie da certi gruppi di beneficiari, che costituiti solo formalmente allo scopo di ricevere dall’alto, e abituati ad un aiuto esterno, verticale il più possibile, si adattano alle circostanze senza un vero progetto.
E noi abbiamo questo strano compito che sembra caduto dal cielo di dover seguire, accompagnare, facilitare, valutare direttamente sul territorio la situazione dei gruppi di agricoltori in questa zona d’Africa.
Mi sento piombato ancora una volta da questa parte del palco a recitare la parte del “nasara”, ma questa volta senz’arte. Senz’arte questa volta, ma sempre pronto ad improvvisare come da canovaccio o da programma.
In realtà per ora sto soltanto seduto su una sedia ad ascoltare. Qui lo spettacolo è il tipo di decisione che ne verrà fuori, è la gente che prende coscienza, che decide di non lasciar perdere, di investire le proprie risorse per creare un futuro parallelo al flusso delle due stagioni.
Spesso si sente ancora l’invocazione d’aiuto, non solo da parte dei contadini, ma degli stessi capi villaggio che parlano di se stessi come di bambini da far crescere, e si capisce che intendono per aiuto un aiuto materiale in termini di denaro o di cose. Aspettando “cadeaux”. E’ proprio questo tipo di aiuto che si è rivelato fallimentare qui come altrove, perché ciò che non viene in primo luogo dalla base alla base non ritorna.  Retorica a parte, ogni attività, anche se scrupolosamente programmata, rimane ancora una prova ricca d’insidie; ogni processo comunitario che porta al risultato previsto, rischia di restare un semplice tentativo che ha funzionato “una tantum” e che non è detto che si ripeterà o che faccia scuola. Si è così sempre sul punto di giocarsi il principio cooperativo, ogni tentativo non riuscito rischia al contrario di vanificare una buona teoria.

La capra tagliata a pezzi è ormai sulla graticola e non odora più di “capra” ma di pasto, e penetra assieme all’odore di legna bruciata nelle narici di tutti. Mentre ascoltiamo i numeri del bilancio, la gente pur pregustando la cena è molto attenta ai propri conti, al contrario di me.
Sono le 18, la gente ride e la capra è sicuramente pronta. La domanda è: “basterà per tutti?”; di sicuro ne avranno riservata una parte per noi che avendo assistito alla sua agonia ne faremmo volentieri a meno. Ma come mancare all’ospitalità?

Sento che devo capire ancora molto dell’amore, della tenerezza e della poesia di questo posto, di questa gente, di questo lavoro. Alcune delle difficolta mi sono al contrario molto chiare. Fare questo lavoro significa inserirsi in questa lontana comunità e comprendere cosa s’intende per individuale e cosa per comune, cercare di capire qual è il limite tra coralità e promisquità, cosa è la vita di un villaggio e quali regole formali vi s’innestino, quali effetti producano, e cosa di questo a noi è dato o non è dato di capire. Significa anche non potersi mai dimenticare di essere ciò che si appare, un visitatore di un altro continente con la sua magia, che alcuni odiano, altri amano, altri tollerano o accettano come una cosa tra le cose o come una fortuna, e di cui comunque tutti sono curiosi e a cui tutti forse ambirebbero se potessero.
La realtà di questo posto potrebbe sembrare già chiara e ben distesa sotto il sole per molti, si potrebbe benissimo dire, anche dopo un paio di settimane, che si è già capito quanto basta per rinunciare a questa resistenza al cambiamento, a questa povertà di mezzi per vivere, a questo paesaggio omogeneo, a questa scarsità di acquisti, di comunicazioni, di oggetti, d’arte, di cibi. Ma questo è un pensiero che solo di tanto in tanto s’insinua nel cuore. Bisogna come minimo affondarci le mani in questo “poco da fare e molto da spingere”.
Realtà che è solo l’inizio di una sfida.
La capra non è male.

Hilde, la mia gazzella.
Hilde, la mia gazzella.






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