Del Proteo

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"Se nella solitudine ti senti grande e fecondo, stare in società ti renderà piccolo e sterile: e viceversa. Possente mansuetudine, come quella di un padre: - laddove ti senti in questa disposizione d'animo, getta le fondamenta della tua casa, sia nel tumulto, sia nella solitudine. Ubi pater sum, ibi patria."
Friedrich Nietzsche, "Aurora"


Oggi sono l’animale del grande disprezzo e ne assumo la forma indeterminata e il nome, Proteo è il mio nome, la scelta di una profondità, di una pulizia.
La nuda pelle del mio cranio, oggi e per ventiquattro ore il giorno riflette la nessuna luce della mia condizione ipogea.
So di essere raro, pochi sono i miei modi di dimorare perché rare sono le mie opache dimore. Quaggiù si vive solo della musica d’arpeggio d’infinite gocce gravide, che nei secoli creano, colando nelle acque sotterranee, gialle dentature di calcare; ignoto è qui il vento e tutto ciò che ha riguardato me in altre visioni.
Il tempo si è fatto rasoio su di me, ho perso, tagliati gli occhi, perché non c’è niente da vedere, nulla da manifestare; rinuncio ad ogni colore, ogni espressione è annullata, e rimango qui con la mia nudità, privo di distrazioni. Io e l’arpeggio di fondo nel brusio di un’unica sensazione tattile. Sono presente a me stesso molto più che se avessi fatto il voto di esserlo, e tutto l’attorno è solo umidità.
Se gli altri per un attimo potessero toccare le mie profondità, quale nome mi darebbero?: Bizzarria o peggio Mutazione, o ancora mi liquiderebbero come Adattamento, fossile vivente. Chissà se oserebbero pensare a me come ad uno spirito caduto qui per caso in un’era remota.
I sapienti mi vedranno certamente un giorno come un essere sfortunato, che ha fatto della sua infermità una virtù nuda, nelle tenebre.
Come sempre rotolano nell’errore questi scienziati! Ovunque si spingano a posare il piede per un attimo almeno. Un giorno fingeranno di vedermi attraverso le loro lenti e mi illumineranno volentieri con esauste batterie, volentieri vorranno vedere le tenebre con la loro fioca luce, ma così non vedranno le tenebre, non vedranno me.
Sono arrivati, Proteo che non è cambiato e che non cambierà, bizzarria anguiforme ti hanno già chiamato e scendono sempre più giù per prenderti, ma non potranno accecarti, non ti distrarranno!
Si, lo vedi, IO sono tenebre, inespressivo, non farò intravedere la mia scelta, la mia rinuncia.
Il grande disprezzo, la mia prima metamorfosi ha la sembianza di qualcosa che rinuncia pur di restare pulito.
Sono cieco, in limpidi ruscelli e ancora non chiedo compagni. Il disprezzo non è ribellione.
La ribellione libera lo schiavo, la mia decisione nasce dalla libertà e aspetta di maturare.
Tutte le gocce gravide intanto, cadendo muoiono e lasciano la loro calcarea eredità sui pinnacoli di pietra, che sorgono dal basso grazie a loro, canini feroci che crescono in un lento stillicidio fino a chiudersi in colonne. Il chiacchericcio di scoli e cadute non si ferma mai, non ha sonno.
Sempre di ogni goccia sento la volontà, e quando di tutte le volontà se ne farà una sola e sarà la mia, quando l’eterno chiacchericcio sarà spento in me senza ritorno, quando le mascelle della mia casa saranno serrate, quando l’ultima goccia di saliva cadrà; allora soltanto sarò maturo.
Fino ad allora mi riparerò nel disprezzo.
Lasciando che il mio senso salga da caverne più profonde.
Sempre i sapienti mi chiameranno Bizzarria, così chiamano ciò che non può essere spinto con facilità nei loro sentieri, così chiamano ciò che vuole essere indifferente alla loro sapienza, ma essi sanno troppo poco.
Per ora mi è dato solo il coraggio dell’assoluta estraneità, ma attendo tempi nuovi e sono giovane quel tanto da non voler fallire.
Verrà il tempo degli alti monti e allora nelle rocce sottentrerà la vista di chi non ha occhi, ma ora i “senza occhi” sono loro, coloro che non hanno scelto la cecità trovano giustificazione a tutto, sono nati pronti e sanno fabbricarsi corone di falso rispetto salvo poi nascondere tutto dentro le loro stantie celle funerarie, ma per se stessi non preparano mai celle!. Anche le loro corone mi paiono soffici, senza spine, credo che non abbiano mai visto il proprio sangue, ma anche a quella vista troverebbero giustificazione.
Un dito è la loro ragione ed essi sono così piccoli da sapercisi nascondere.
Non conoscono il disprezzo meraviglioso che lega tutte le nature, che crea tutte le differenze; danno ragione della natura come fosse da loro creata e poi si coprono gli occhi di fronte alla morte, si domandano come possa morire chi ha fatto tanto.
Le magre e consolatorie giustificazioni costano poco, per questo vanno disprezzate.
E noi cosa offriremo? Cosa comanda la natura?: il nostro esangue spirito di profondità e la vita sentiamo che ci chiede. E’ questo il senso del brusio infinito di gocce che cadono e dicono SI!. E’ questa la voce che ascolto.
IO voglio questo perché lo vuole lei, ma lo voglio veramente perché in queste caverne ho sentito la sua voce; posso avere il viso più inespressivo ma questo voglio.
Però anche loro senza volerlo dovranno offrirsi, ferme restando le loro illusioni a basso prezzo. Anche in queste caverne la vita è una questione di gusto; noi ci concediamo illusioni e assilli e visioni più alte mentre sentiamo nello sfondo il continuo rumore delle gocce gravide che muoiono per rifare il giro e portare eredità. Libertà è il loro SI e la loro volontà implicita.
Questo è oggi l’udito del mutevole proteo e la voce che le sue branchie piumose avvertono vibrare nella profondità.
Altre trasformazioni ti attendono, anche tu dovrai portare con te la tua eredità se vuoi compiere il giro. Con coraggio oltre all’assillo, altre debolezze converrà che ti abitui a portare e altre forze e giramenti di testa.
Mai le illusioni sapranno saturare questo spirito, perché infinite e cariche di volontà sono le cadute e le morti delle gocce e tutte le cadute corrispondono alla sua volontà. IO contemplo anche ciò che disprezzo e non c’è invidia in me che vivo nella grotta, ma è ancora lunga la strada verso l’innocenza della goccia nel rapire alla terra la sua eredità.
Ma quanta indifferenza, quanta rabbia, tra le differenze: ha forse rispetto del verme il pesce, quando con innocenza se ne nutre?. O è connaturato tutto perché ogni spietata tendenza alla propria eredità sia in equilibrio?.
La risposta a questo dubbio attendo qui, isolato.

Tu puoi venirmi a trovare nelle mie profondità se vuoi, l’istinto stesso mi spinge a questo invito.
E se ho paura di contemplare con disprezzo la tua insicurezza, la tua paura del freddo, il tuo panico per le pareti vertiginose, il tuo affanno per l’abisso; prenderò il senso della tua discesa come la forza del dono per cui tu avrai voluto forzare la tua natura per me, per quello che sono. Ti sarai lasciata attrarre attraendo e questo solo potrà produrre la metamorfosi che renderà me simile a te oppure te simile a me. O forse, noi per sempre attratti dalla nostra differenza vivremo la forma di un unione che ci consoliderà nel disprezzo per le forme volgari d’esistenza, quelle che le gocce stillanti qui si vergognano persino a raccontare.

20 giugno 2000











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